Chissà se, nelle recenti elezioni comunali, i votanti umbri si sono ricordati che la qualità della loro vita dipende non solo dalla salute fisica, mentale e dalla condizione economica, ma anche dalla qualità degli spazi all’interno delle città? In questa regione, più fortunata di altre, l’integrazione uomo/città registra standard assai variabili tra un comune e un altro. A Gubbio non si vive come a Foligno; a Nocera gli spazi per il tempo libero, per l’aggregazione e per l’azione sociale non sono gli stessi che a Perugia. Ogni città dovrebbe soddisfare al meglio le esigenze di sviluppo fisico e spirituale dei suoi componenti, promuovere la partecipazione alla vita comunitaria, in cui ciascuno si realizza nella dimensione del lavoro, in quella della socialità e dell’impegno politico. Probabilmente l’Umbria non ha ancora perso la sua battaglia contro il formarsi dei solchi erosivi creati dalla società attuale, in assoluto la peggiore dal dopoguerra. La nostra umbritudine ci ha preservati, per ora, dai comportamenti imitativi ed emulativi del tempo libero dettati dalle modalità di consumo dominanti. Nei nostri centri il sistema che tende al conformismo culturale non ha ancora azzerato la dialettica. Qualità del tempo libero, cultura diffusa e qualità delle città nei loro aspetti urbanistici e architettonici, costituiscono i soli rimedi contro la volgarità e la soggezione al gregge. Città e civiltà sono parole vicine. Il problema non è avere strumenti normativi o di piani regolatori generali con indicazioni operative, che sono utili soltanto agli amministratori, per trincerarsi dietro una copertura giuridica e formale. Oggi ci vuole di più. Ci vuole la capacità di comprendere i movimenti – sociali, culturali, economici - che si svolgono negli ambienti urbani, e la capacità di decidere se è bene assecondarli o contrastarli, in un’ottica di sviluppo sostenibile nel lungo periodo. Ci vogliono regolamenti edilizi, politiche urbanistiche e territoriali, soluzioni ai problemi da risolvere “buoni”: ovvero definiti da amministratori capaci di articolare una dialettica tra i bisogni rappresentati dalle mamme, dai bambini, dagli anziani, dai giovani, dai disoccupati, dai proprietari delle aree, dagli automobilisti, dai commercianti, dagli amanti del passato, dai sostenitori delle avanguardie, dai costruttori e dalle categorie professionali. I sindaci neoeletti, e quelli che usciranno dai ballottaggi, dovranno dimostrare di essere in grado di conciliare rapidamente le varie posizioni e di saper approntare rimedi nel breve periodo. Non c’è più spazio per piani strampalati e folli che non tengono conto delle finanze locali, dei contesti culturali, del diritto e del senso comune. In caso contrario le ripercussioni sugli individui, sulle famiglie e sulle comunità saranno devastanti, e nessun amministratore potrà dire di aver corrisposto alle attese degli amministrati. Prendiamo ad esempio l’esperienza di Foligno, una città che affonda le proprie radici in una storia industre e mai stagnante. Foligno sta prendendo coscienza della necessità di rinnovarsi e di affermare una propria dimensione di contemporaneità; ciò nonostante, ancora oggi stenta a definire il suo progetto di rapporto tra città e ambiente, e fa fatica a inserire nel paesaggio urbano elementi architettonici dotati di forte capacità evocativa, che facciano scattare ricordi, attivino vocabolari contemporanei densi di significati e intessano una dialettica feconda con la storia. Occuparsi di urbanistica a Foligno non è facile: già le sue conurbazioni inglobano i centri minori, gli spazi intermedi a destinazione tra rurale e urbana e creano filamenti urbani tentacolari. La valle umbra, fatte salve limitate riserve di verde da difendere con le unghie e con i denti, soffre pesantemente del progressivo stravolgimento del rapporto – un tempo armonico e fluido - tra città e natura. Il bello, il sano, il vivibile svaniscono per cedere il posto a una condizione di vita paradossalmente alienante nella sua pretesa funzionalistica; e se la tendenza è questa, a poco serve calare dall’alto nelle città monumenti con tanto di griffe. L’architettura delle grandi firme deve sorprendere e nel contempo saper divenire familiare, integrarsi via via con il vissuto della città anche se è immediatamente riconoscibile per la sua capacità di sorprendere, come il museo d’Arte contemporanea voluto dalla Fondazione della Cassa di Risparmio. Non è così per la chiesa di via del Roccolo, priva – oggi e per il futuro - di ogni possibilità di scambio con l’ambiente che la circonda. Quando una città decide di approvare un’opera architettonica è sempre bene riflettere sul suo significato culturale, sulla sua necessità e sui cambiamenti che è in grado di apportare all’ambiente urbano in cui si colloca. Se è vero che lo sviluppo urbanistico non va fermato, è anche vero che dovrà essere sviluppo sostenibile: il sindaco Mismetti – nei confronti del quale ha manifestato apprezzamento persino il suo corretto antagonista Mantucci - dovrà quindi svolgere fino in fondo il proprio ruolo, interpretando sulla base di criteri solidi – culturalmente e finanziariamente - le esigenze di chi dovrà abitare la città che egli si appresta ad amministrare. I folignati, che hanno un’idea chiara di cos’è la qualità della vita, lo hanno scelto nella speranza di non avere più a che fare con i burocrati intanati negli uffici e con i mediatori d’affari. Quello che vogliono non è una città di semilavorati e di prefabbricati, ma una città rispettosa della propria storia, in linea con il progresso della scienza e della tecnica, dove la comunità dei cittadini possa finalmente godere delle libertà umane faticosamente conquistate, che i secoli passati non ci potevano dare. Beata umbritudine, umbra beatitudine.
Giovanni Picuti
abcabc@cline.it
Dal Corriere dell'Umbria del 13 giugno 2009